Ischia, l’isola di Tifeo

Gea immane, come figlio più giovane partorì Tifeo, […] dalle spalle gli nascono cento teste di serpente, di terribile drago, di lingue nere vibranti; e a lui dagli occhi, nelle teste prodigiose, ardeva sotto le ciglia fuoco scintillante; fuoco ardeva da tutte le teste come fissava lo sguardo;

(Esiodo, Teogonia, vv.821-829)

Agli occhi degli antichi greci un’isola lontana e selvaggia come quella d’Ischia doveva suscitare sentimenti ed emozioni contrastanti: la curiosità verso una terra sconosciuta e dagli incantevoli scenari naturali, verso la quale si navigava con il proprio bagaglio di ansie e speranze per una nuova vita, migliore di quella che si lasciava in madrepatria, una promessa che la fertilità e la generosità di quella terra non avrebbero disatteso. Ben presto tuttavia essi sperimentarono, con un misto di meraviglia e terrore, quanto essa possa essere terribile: frequenti terremoti, eruzioni vulcaniche, fiumi di lava che sgorgavano dalle viscere della terra insieme ad intense esalazioni fumaroliche e ad acque bollenti. Una terra irrequieta che gemeva e sputava fuoco proprio come un terribile mostro.

Camillo De Vito, Eruzione del Vesuvio 1812

Come si sa, questi fenomeni erano quelli che più colpivano gli uomini: imprevedibili e misteriosi influivano notevolmente sulla loro vita. Così essi, incapaci di comprenderli e controllarli, inventarono i miti, gli dèi, gli eroi e gli esseri mostruosi affinché potessero trovare una spiegazione, un punto di riferimento al quale appellarsi per mantenerne la benevolenza, o da cercare di placare quando si facevano minacciosi. Così i primi greci d’Occidente attribuirono quegli sconvolgenti fenomeni naturali alla presenza sotto l’isola del mostruoso Tifeo che gemendo scuoteva la terra sotto i loro piedi, dalle sue bocche eruttava lava incandescente, con il suo sospiro alimentava le fumarole e le sorgenti di calda acqua termale di cui è ricca l’isola. Ma chi era questo titano ribelle che osò sfidare nientemeno che Zeus, il signore degli dei?

Zeus scaglia il fulmine contro Tifone, hydria calcidese a figure nere, 550 a.C. Staatliche Antikensammlungen.

Il mito di Tifeo è uno dei più suggestivi della mitologia greca e di esso ne esistono diverse varianti e versioni. Egli, conosciuto anche con il nome di Tifone, è il mostruoso figlio di Gea e del Tartaro (Esiodo, Teogonia vv.820-821; Pindaro, Pitiche, I,15; Igino, Favole 152). Altre versioni, invece, lo vogliono nato dalle uova che Crono consegnò a Gea, oppure essere figlio di Era e allevato da Pitone a Delfi (Inno ad Apollo, vv 305 sgg.).

In ogni caso la tradizione vede un legame profondo del mostro con la terra e il sottosuolo, tanto da poterlo considerare una personificazione allegorica del vulcanesimo e della sua forza distruttiva (si tenga anche presente che il nome Tifeo etimologicamente è da mettere in connessione con il verbo greco τύφειν, “fare fumo”).

Il suo aspetto era decisamente inquietante: era così alto da superare le vette dei monti e da toccare con il capo le stelle, fino alle anche aveva forma umana e dalle spalle gli spuntavano cento teste di serpenti, dalle anche in giù il suo corpo era come due giganteschi serpenti attorcigliati. Si diceva che la voce delle sue cento teste fosse spesso comprensibile agli dèi, ma talvolta era un muggito simile a quello del toro o al ruggito del leone, spesso somigliava all’abbaiare del cane o un sibilo; tali voci riecheggiavano tra i monti.

Tutto il corpo del mostro era alato. I suoi capelli e la sua barba incolti si agitavano al vento mentre fiamme ardevano nei suoi occhi. Sibilando e muggendo, egli lanciava pietre infuocate contro il cielo e dalla sua bocca divampavano fiamme. Un vero flagello non solo per i mortali ma anche per gli dèi tanto che essi fuggirono terrorizzati quando il titano giunse sull’Olimpo.

Anche Zeus scappò, ma fu severamente redarguito dalla figlia Atena, la quale gli ricordò come da lui dipendesse il destino degli dèi e di tutta l’umanità. Iniziò così una durissima lotta che vide il titano soccombere sotto i potenti colpi della folgore di Zeus.

Il Gigante Tifeo incatenato sotto l’isola d’Ischia (da Camillo Eucherio de Quintiis, Inarime seu de balneis Pithecusarum, Napoli 1726)

A questo punto la tradizione vuole Tifeo sprofondare schiacciato sotto l’Etna oppure, come riportano Pindaro (Pitiche, I, vv. 13-28) ed Eschilo (Prometeo Incatenato, vv. 351-372), sotto tutta la regione vulcanica che si estende da Cuma con i Campi Flegrei sino alla Sicilia.

Per gli autori latini invece la sede di Tifeo è Ischia, come ci viene testimoniato da Virgilio (Eneide, IX, 715-713). Certo è che questo mito ha origini molto antiche tanto che già Omero vi fa riferimento collocando Tifeo nella “terra degli Arimi” (Iliade II, 780-783) e “fra gli Arimi” lo troviamo anche per Esiodo (Teogonia vv. 295-308) quando si unisce in amore con Echidna. Quando furono composte queste opere, l’immaginario greco poneva il luogo degli Arimi nel Vicino Oriente, in una regione vulcanica della Cilicia.

Una localizzazione che in seguito all’espansione dei Greci in Occidente, finì con il tempo per essere spostata presso Ischia o in Sicilia, dove il Monte Epomeo o l’Etna parvero ai primi coloni la sede perfetta in cui collocare il luogo della prigionia di Tifeo. In tal modo accadde che la greca Pithekoussai venne ad acquisire il ruolo di “testa di ponte” di questo mito in Occidente, così come chiarito dallo studioso locale Giovanni Castagna (La Rassegna d’Ischia 6/98, pp. 3-9), oltre al poetico nome di Inarime consacrato da Virgilio.

  • Testi a cura dell’archeologo Francesco Lamonaca

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